Case
dell'alta valle del Metauro Questo
album di disegni, a penna e inchiostro, di case, palazzetti, casolari del borgo e del
territorio di Mercatello sul Metauro, propone, oltre la sua maniera tecnica, tra l'abbozzo
progettuale e il prospetto illustrativo, un sistema carico di significati, suggestivo
quanto chiaro, che svolge e rivive la lunga e densa storia attraverso la quale si è
composta l'attuale armoniosa ampiezza della piccola città.
Ogni disegno sa riconoscere un punto dei percorsi, una qualità, un
proposito nelle varie epoche della comunità di Mercatello: dell'evolversi della sua
economia, delle sue strutture produttive, dei centri di servizio, dei mercati, della
sicurezza stessa delle sue mura e delle sue porte sull'una e sull'altra riva del fiume,
appena oltre le asperità e le insidie della tormentosa, interminabile gola montana.
A quel primo tratto di rive approdabili, nei terrosi guadi alberati, aperti
su campetti via via crescenti, dovevano affidarsi i passanti e i convogli, truppe o
compagnie, mandrie, greggi, e così i residenti delle opposte pendici, i raccoglitori, gli
artigiani, i preti, i frati questuanti, i cacciatori, i medici, i parenti, i suonatori, i
muratori, i vasari, i mercanti.
Una bella abbazia monacale di forte e ampia muratura avrebbe
provvidenzialmente confermato e confortato il luogo nella sua larghezza con generosa
assunzione paternale e con il diretto, prolungato appello di due o tre campane maestre:
così è stato nell'undicesimo secolo. La chiesa resta, con le dispense intorno, essendo
la gente scesa a costituire il borgo nei decenni successivi. Nel borgo, del
dodicesimo-tredicesimo secolo, si apre verso i monti, un rotondo bastione, composto e
svolto da numerose abitazioni, accostate l'una all'altra secondo un preciso disegno urbano
e civile. Se ne conservano ancora alcune logge sopra i tetti, luoghi di avvistamento e di
difesa: con scale interne molto protette, a precipizio sul terrapieno delle corti. Più
avanti, ardito quanto sicuro, già del quindicesimo secolo, si slarga un palazzo signorile
di severa gentilezza. Restano, poco più a destra, sul fiume, mura smozzicate, giardini
stretti e profondi con molti alberi di altissimo fusto e grossi tronchi, tanto vicini fra
loro da comporre fortilizi impenetrabili. Sul fiume sporgono ponti di varie epoche:
ruderi, un voltone medioevale, parapetti quattrocenteschi, cappelline vertiginose sui più
alti dirupi, che hanno sempre concesso miracolose protezioni', provvide quanto inattese, e
i lunghi tetti, disseminati di vecchi apparecchi molari e di conce, filande,
frantoi.
Presto lungo i percorsi tra questi antichi luoghi - membra della comunità
di Mercatello - si incontrano alcune delle case e dei palazzetti raffigurati nelle tavole
del libro. Già a un primo sguardo si riconoscono subito gli edifici illustrati, non solo
perché il disegno li individua, restituendoli con esattezza, ma anche perché ha saputo
coglierne la fisionomia, l'umore, l'atteggiamento - non solo il vero, materiale e storico,
ma persino i tratti di vita trascorsa, ancora non spenta. Cerco di spiegarmi questa magia
con la penetrante bellezza di quella realtà, con le indulgenze e la cultura della
regione, con le correnti di nostalgia dalle ombre delle porte, delle finestre, che
incalzano vibrando di pena, di colpe e di pietà. E ancora più toccanti, subito nere
nella miseria e nel dolore di una grande ingiustizia, sono le case delle frazioni
contadine, dei poderi, dei colli boscosi, dei piccoli, crudeli campi montani, percorsi di
fatica, solitudine, aridità e gelo.
I contadini abitavano queste case dalla metà del millennio e anche prima,
al riparo come belve: senz'acqua, senza luce, senza fuoco, con pochi attrezzi, senza
mobili, senza stoviglie né corredi. In casa avevano un letto sfondato, un grande camino,
un acquaio lastronato, un orcio, un lume, un mucchietto di polenta, una manciata di sale,
una fiaschetta di aceto, una ampollina di olio, un bottiglione di vinaccio, una cotica, un
fiasco di fagioli, un angolo di pavimento ricoperto di mele, un tavolino di assi d'olmo,
due panche, due sgabelli di laterizio, un cassettino con gli zolfanelli, aghi, fili,
spaghi, la palma benedetta, il libro dei conti padronali, un pettine, un rosario, un
santino di Sant'Antonio del porcello, tre o quattro coralli, un ciuffo di pelo di tasso.
Chi aveva un fucile, lo teneva accanto alla porta che dava sulla stalla, le porte e le
finestre erano sconnesse, malsicure, quasi sempre spalancate d'estate come per sortire da
una pressione angosciosa; d'inverno, sbattute dai venti o aperte a calci per il fumo e per
l'oscurità.
Queste case sono belle in quanto edifici e misure di un paesaggio, come
pagine di grande lindore poetico - adattate dalla sublime ingenuità e purezza d'animo e
di coscienza di coloro che le occuparono e usarono per secoli. Da esse seppero ricavare
logge, alzare torri, scavare nidi o nicchie, spianare aree davanti, misurare addosso e
intorno il sole e l'ombra con alberi e siepi, regolare e catturare i venti riempiendoli di
profumi delle erbe e dei fiori, i più sorprendenti.
Con la purezza d'animo, la disgrazia e le malattie convivevano
fraternamente. E quando il padrone di casa e capofamiglia decideva di non rassegnarsi alla
sfortuna, di non essere paziente con il male, allora questi si accanivano su di lui,
alleati alla miseria e alla cattiveria. Avrà resistito molto il padre, fino a diventare
filosofo e poeta, fino a farsi profeta e sognatore di mondi e società. Fino a capire
l'urgenza e il modo di un'altra vita. Qualcuno è dovuto arrivare anche a bruciare la
barca del grano, poi i pagliai e la casa - alte le fiamme sopra i noci - per finire a
sfracellarsi dentro il pozzo.
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