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Case dell'alta valle del Metauro 

Il testo di Paolo Volponi

Questo album di disegni, a penna e inchiostro, di case, palazzetti, casolari del borgo e del territorio di Mercatello sul Metauro, propone, oltre la sua maniera tecnica, tra l'abbozzo progettuale e il prospetto illustrativo, un sistema carico di significati, suggestivo quanto chiaro, che svolge e rivive la lunga e densa storia attraverso la quale si è composta l'attuale armoniosa ampiezza della piccola città. Ogni disegno sa riconoscere un punto dei percorsi, una qualità, un proposito nelle varie epoche della comunità di Mercatello: dell'evolversi della sua economia, delle sue strutture produttive, dei centri di servizio, dei mercati, della sicurezza stessa delle sue mura e delle sue porte sull'una e sull'altra riva del fiume, appena oltre le asperità e le insidie della tormentosa, interminabile gola montana. A quel primo tratto di rive approdabili, nei terrosi guadi alberati, aperti su campetti via via crescenti, dovevano affidarsi i passanti e i convogli, truppe o compagnie, mandrie, greggi, e così i residenti delle opposte pendici, i raccoglitori, gli artigiani, i preti, i frati questuanti, i cacciatori, i medici, i parenti, i suonatori, i muratori, i vasari, i mercanti. Una bella abbazia monacale di forte e ampia muratura avrebbe provvidenzialmente confermato e confortato il luogo nella sua larghezza con generosa assunzione paternale e con il diretto, prolungato appello di due o tre campane maestre: così è stato nell'undicesimo secolo. La chiesa resta, con le dispense intorno, essendo la gente scesa a costituire il borgo nei decenni successivi. Nel borgo, del dodicesimo-tredicesimo secolo, si apre verso i monti, un rotondo bastione, composto e svolto da numerose abitazioni, accostate l'una all'altra secondo un preciso disegno urbano e civile. Se ne conservano ancora alcune logge sopra i tetti, luoghi di avvistamento e di difesa: con scale interne molto protette, a precipizio sul terrapieno delle corti. Più avanti, ardito quanto sicuro, già del quindicesimo secolo, si slarga un palazzo signorile di severa gentilezza. Restano, poco più a destra, sul fiume, mura smozzicate, giardini stretti e profondi con molti alberi di altissimo fusto e grossi tronchi, tanto vicini fra loro da comporre fortilizi impenetrabili. Sul fiume sporgono ponti di varie epoche: ruderi, un voltone medioevale, parapetti quattrocenteschi, cappelline vertiginose sui più alti dirupi, che hanno sempre concesso miracolose protezioni', provvide quanto inattese, e i lunghi tetti, disseminati di vecchi apparecchi molari e di conce, filande, frantoi. Presto lungo i percorsi tra questi antichi luoghi - membra della comunità di Mercatello - si incontrano alcune delle case e dei palazzetti raffigurati nelle tavole del libro. Già a un primo sguardo si riconoscono subito gli edifici illustrati, non solo perché il disegno li individua, restituendoli con esattezza, ma anche perché ha saputo coglierne la fisionomia, l'umore, l'atteggiamento - non solo il vero, materiale e storico, ma persino i tratti di vita trascorsa, ancora non spenta. Cerco di spiegarmi questa magia con la penetrante bellezza di quella realtà, con le indulgenze e la cultura della regione, con le correnti di nostalgia dalle ombre delle porte, delle finestre, che incalzano vibrando di pena, di colpe e di pietà. E ancora più toccanti, subito nere nella miseria e nel dolore di una grande ingiustizia, sono le case delle frazioni contadine, dei poderi, dei colli boscosi, dei piccoli, crudeli campi montani, percorsi di fatica, solitudine, aridità e gelo. I contadini abitavano queste case dalla metà del millennio e anche prima, al riparo come belve: senz'acqua, senza luce, senza fuoco, con pochi attrezzi, senza mobili, senza stoviglie né corredi. In casa avevano un letto sfondato, un grande camino, un acquaio lastronato, un orcio, un lume, un mucchietto di polenta, una manciata di sale, una fiaschetta di aceto, una ampollina di olio, un bottiglione di vinaccio, una cotica, un fiasco di fagioli, un angolo di pavimento ricoperto di mele, un tavolino di assi d'olmo, due panche, due sgabelli di laterizio, un cassettino con gli zolfanelli, aghi, fili, spaghi, la palma benedetta, il libro dei conti padronali, un pettine, un rosario, un santino di Sant'Antonio del porcello, tre o quattro coralli, un ciuffo di pelo di tasso. Chi aveva un fucile, lo teneva accanto alla porta che dava sulla stalla, le porte e le finestre erano sconnesse, malsicure, quasi sempre spalancate d'estate come per sortire da una pressione angosciosa; d'inverno, sbattute dai venti o aperte a calci per il fumo e per l'oscurità. Queste case sono belle in quanto edifici e misure di un paesaggio, come pagine di grande lindore poetico - adattate dalla sublime ingenuità e purezza d'animo e di coscienza di coloro che le occuparono e usarono per secoli. Da esse seppero ricavare logge, alzare torri, scavare nidi o nicchie, spianare aree davanti, misurare addosso e intorno il sole e l'ombra con alberi e siepi, regolare e catturare i venti riempiendoli di profumi delle erbe e dei fiori, i più sorprendenti. Con la purezza d'animo, la disgrazia e le malattie convivevano fraternamente. E quando il padrone di casa e capofamiglia decideva di non rassegnarsi alla sfortuna, di non essere paziente con il male, allora questi si accanivano su di lui, alleati alla miseria e alla cattiveria. Avrà resistito molto il padre, fino a diventare filosofo e poeta, fino a farsi profeta e sognatore di mondi e società. Fino a capire l'urgenza e il modo di un'altra vita. Qualcuno è dovuto arrivare anche a bruciare la barca del grano, poi i pagliai e la casa - alte le fiamme sopra i noci - per finire a sfracellarsi dentro il pozzo. 

Le case isolate dentro le fiancate che s'alzano dai due lati della pianura fluviale tremano di questi bagliori, sono ammutolite e ben composte tra gli angoli, le facciate, le gronde, le scale; ma tendono a venire in avanti, quasi a mostrare la loro salute e semplicità. Non vogliono essere accostate alla demenza che le lasciò deserte: dicono e vogliono raccontare che mai avrebbero, non solo voluto, ma potuto ridurre o indurre qualcuno ad avvilirsi e poi disperarsi, tanto da abbandonare ogni terreno e ordine, a smettere di comportarsi da uomo come loro da casa, consapevolmente e materialmente insieme secondo gli spazi, i giorni, le opere, le ombre, l'uscire e il rientrare, l'aprire e il chiudere. Tutto per affermare una casa vera e la pace per uomini in famiglia, con gregge, mandria, branco, campi, pascoli, orto, pozzo, fienile, carro, strada. Affermare insieme una vita reale e utile, in quel sito noto e nominato, nel paesaggio come identità, piacevole, percepibile e confrontabile proprio per la singolare congiunta identità del padre-famiglia lì accasato, e della casa lì abitata e quindi appaiata. Venga pure adesso, fin quassù, un artista a ritrarre la casa, e vedrà bene che essa ancora vive e si sporge accogliente, con speranza come con disperazione. Altrimenti non terrebbe l'ombra a metà della loggia e il vano della porta spalancato e nero, come se, appena adesso rientrati gli uomini e le donne, sparissero a riposarsi nel buio, poco a poco, strisciassero verso la luce in alto delle due finestre, e ancora dopo accendessero un piccolo fuoco di sterpi, e molto dopo il tramonto una candela. La candela raggiungerebbe presto il cuore domestico con una diffusa luce di conforto. Queste case hanno ancora, dentro e fuori, l'ordine che aveva la famiglia che le abitava, stabilito dai lavori e dai ritmi della vita campestre. Se queste case sono così ordinate e composte, belle e ben fatte, una qualche grazia doveva avere anche la società del loro tempo: credo quella dell'umiltà, della bravura e dell'attaccamento al lavoro. Esse contano ancora più della storia e della tradizione, più di pregevoli monumenti artistici e sociali: spiegano e convincono perché hanno faccia, occhi e bocca nell'ordine di soggetti umani, guardano per farsi conoscere e per riconoscere, chiamano, interrogano, raccontano, rispondono. Possono descrivere come erano di figura, tipo, carattere, schiatta, le varie famiglie che le hanno abitate; di quale umore, parlata, bravura, qualità, salute, forza, ingegno; di quali giudizi provveduti e di quali affetti capaci e gentilezza, rispetto, ambizione. Le case più grandi e più vicine al centro sono ancora caratteristiche, ma in senso più indulgente e corrivo. Le più piccole, lontane fra i campi, non hanno invece subìto alcuna mediazione; sono più vive, frementi, richiedono un confronto anche tremendo. La loro storia e la loro vita non sono state assorbite né accomodate. Davanti ad esse, i nostro pittore è più scrupoloso e franco, più attento. Niente particolari descrittivi, nessuna ombra inquietante. Come si salveranno? Le prime, forse nei successivi adattamenti Le seconde? Mai. Non sembra esserci una possibile idea, visto che non possono diventare abitazioni, non luoghi di residenza, di vacanza. Cadranno come carcasse, attraverso un lungo movimento del quale sarà interessante via via riprendere le sequenze. lì ricordo così non si perderà del tutto, e anzi potrebbe alimentare ancora altre speranze, altri sogni. Adesso si capisce quali di queste case siano state abitate più a lungo e con amore, con soddisfazione e comodità. Si capisce, anche dalla misura della facciata, come potesse essere questo amore. Da alcuni elementi presenti o mancanti - stallette, piccionaie, arnie, giardinetti, - si può capire l'integrità o meno del gruppo famigliare: capire le vedovanze, le orfanità, la mortalità infantile, le invalidità, i vuoti, gli abbandoni, i suicidi. La casa di un vedovo non ha le piccionaie né le arnie. La casa senza bambini non ha stalle per le pecore né recinti per le galline e le oche. La casa senza vecchi non ha panche né sedie nell'aia; ha sempre le porte chiuse e le persiane che sbattono. La casa senza la madre ha sempre il camino spento e gli scalini infangati, e le scarpe dei bambini lasciate fuori tra l'aia e i campi. La casa senza giovani ragazze non ha rampicanti fioriti, né stese di bucati né specchi alle finestre, e nemmeno intonaco rosa o turchino sulla facciata. La casa senza scolari non ha disegni a carbone sulle porte né illustrazioni e stampe alla vetrina o appiccicate al camino. La casa senza giovani uomini non ha cartoline ai bordi delle vetrate. Dai disegni, pur penetranti e precisi, non tutto questo si può vedere; eppure è proprio dalla loro inclinazione che nascono queste immagini e associazioni. Disegni a penna, vibranti, dal tratto ora rapido ora lento, netto o ammorbidito, secco, largo, quasi sempre calcolato, prossimo o distante, parallelo o trasversale,, proprio per stabilire, oltre che la fisionomia, la mobilità della casa, l'instabilità di certe zone, la debolezza di certi infissi e giunture, la densità liquida delle ombre dei tetti o quella più calcinosa delle logge e delle porte, o la devastante gravità delle crepe.

Entrare in queste case è sempre stato per tutti un atto molto discreto e meditato, carico di simpatia e di apprensione. Uscire è sempre stato più diretto, doloroso magari, ma sollecito e convinto. E comunque, fuori c'era una realtà più sicura. Dentro, spesso, si rischiava di non vedere bene, di non capire, di non distinguere le cose che sorprendevano da quelle che stupivano o commuovevano. Non so trattenere i ricordi dei periodi trascorsi in campagna, in luoghi molto simili, nella casa dei miei nonni materni, dove soggiornavo mezzo inverno e più che tutta l'estate. Bussavo, bussavo fino a estenuarmi per entrare nella casa di un mio compagno, e il più delle volte mi facevano entrare dalla stalla. Uscire era sempre uno scatto, una corsa dalla porta alla strada, quando non dovevamo accompagnare fuori il piccolo gregge di pecore o guidare i buoi all'abbeverata. Ricordo che l'anziano parroco aspettava sempre un quarto d'ora prima di entrare in una casa - aspettava fuori, seduto su uno sgabello che gli avevano passato apposta dalla finestra - aspettava e intanto s'informava da ognuno e osservava ogni cosa, lasciava tempo ai soggetti e agli oggetti, che almeno i bambini smettessero di piangere. Alcune di queste case sono state, di certo per tempi non brevi, troppo piccole o troppo grandi, troppo basse oppure tanto alte da riempirsi di buio, angoscioso e ostile. Coloro che le abitarono piccole e basse, con solo due o tre finestre, ceste e canestri al muro, chiodi, scalette e appoggi minimi, passavano per una porta talmente bassa da doversi curvare per entrare - con uno sportello sullo stallatico da infilarsi gattoni, con le gronde così in giù e sporgenti da batterci sempre contro anche con la testa oltre che con qualsiasi carico o scarico. Sperdute nella neve tanto da affondare il bastone per riconoscere le finestre - la luce del giorno a piccoli angoli, incerti e mutevoli come elitre di larve - il lume della candela a palla che si aggrappava al soffitto. O tutte fra i rami e le foglie da maggio a ottobre, fra grosse ramaglie e fiori, invase di profumi, pollini, insetti, aromi da soffocare. Piene di insetti e di uccelli a primavera, canti, voli, ronzii, strepiti, richiami, e dentro sempre anche rane, rospi, lucertole, grilli, scorpioni, sorci, serpi, lombrichi, lumache, donnole, fame e anche tassi, volpi, cani, porci, pecore, oche, galli, anatre, pulcini, passeri, merli. D'inverno, forse una lupa, ma di sicuro un viandante o due. D'estate, una cagnetta, una coppia d'oche selvatiche, un falco ferito. D'autunno, una cicogna o una gru. Nelle case grandi si annidavano stabilmente pipistrelli, civette, gufi, barbagianni. Nelle case piccole si andava alla veglia volentieri, in quelle grandi a recitare il rosario e a un ballo la sera del carnevale. Le piccole, in basso sui prati o su qualche poggio; le più grandi in cima alle colline dirupate. Case che hanno ordini, aggregati, tetti, coperture, contorni del tutto particolari, compositi e strutturali, ma pur sempre distinti e di singolare spicco: travature, davanzali, abbaini, loggette, portali, inferriate, camini, banderuole, spuntoni di pietra, scoli, piccionaie, nicchie, anconette votive. Concepite, costruite e vissute da una cultura marginale, di confine, toccata dalle correnti di entrambi i versanti montani dell'Appennino, negli incontri sul pozzo o ai guadi, dalle soste forzate dei viaggiatori di ogni tipo alla vigilia di un tratto aspro e faticoso. Il centro di Mercatello ha già una sua piccola vivacità, sonorità e chiarezza di Toscana aretina e tiberina, anche se lo trattiene saldo il bel palazzo in fondo, verso Bocca Trabaria, assolutamente urbinate e feltresco, da ritenere con fondatezza edificio ducale, opera di Francesco di Giorgio Martini. La cittadina è ben consapevole di sé, della propria storia e delle sue proprie qualità, come della sua doppia cultura; la sua civiltà non si divide ma si arricchisce di entrambi i paragoni, si rinsalda nella sua propria ragione di fondamento e anche di congiunzione tra una vallata e l'altra. Mercatello sa riconoscere il meglio della cultura aretina, di quella castellana, tiberina, di quella metaurense, urbinate e anche riminese. Sa con chiarezza quale sia il suo ruolo e quali le sue risorse e possibilità. Ama, custodisce, protegge questi antichi casolari delle sue campagne e colline, perché sente ancora riconoscenza verso coloro che le hanno abitate lavorando, facendole produrre anche per il borgo, spargendosi vive e luminose intorno ad esso, salvandolo dall'oscurità e dal fragore dei dirupi montani. Queste casette erano la grazia e la sicurezza del borgo, erano anche favole, novelle, proverbi, detti del gergo locale e anche ammonimenti, storie esemplari. Qual era la più lontana e isolata, la prima a scomparire già a metà dell'autunno? Quale la più grande, la più ricca, la più allegra, la più ospitale? Quale la più litigiosa? Qualcuno, forse, potrebbe ancora ricordarselo, o almeno immaginarselo. Queste case ci dicono che noi abbiamo goduto di un paesaggio così bello e in una armonia così piena con noi (noi di mezzo secolo fa) che le generazioni anche solo di domani non potranno mai più concepire e tanto meno realizzare. Già quelle di oggi sembrano non vedere più la bellezza e le qualità del nostro paesaggio ancora in gran parte presente. Non fanno più caso a una collina, a una quercia, a una torre, a un rudere, a un ruscello, a un boschetto, a un dirupo di ginestre e di rovi. Questo libro stabilisce una durata fra noi e le case di Mercatello; il tempo si muove avanti e indietro e non possiamo che sentirci spersi, malinconici, consapevoli eppure colmi di speranza. I contadini misuravano la loro vita con il sole, la luna, le preghiere, la nascita e la morte di uomini, cose e animali - essi non guardavano al di là del mondo assegnato loro - vivevano del proprio e scambiavano pochissime merci, non consideravano altro che un'economia di produzione e di consumo. Il tempo economico uguagliava il tempo coniugale, religioso e morale - scansione che generava sapienza e ignoranza, saggezza e superstizione, forza e paure - una società bloccata, estranea alla nozione di cultura moderna e cittadina (così come la conosciamo ai nostri giorni), ma tutta tremante nella grande attesa di mondi nuovi. L'attesa è ancora dell'oggi, dopo quelle case, fra le nostre - grandiose, misere minacciose - malgrado migliaia di nuovi mondi siano stati scoperti e già sommersi, abitati e già distrutti; l'attesa che si accende e si spegne ineluttabilmente, come le candele che brillavano a Mercatello all'epoca di quelle case.

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Le immagini di Giovanni Gandolfi


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